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Il trapianto da donatore di staminali da cordone è una realtà consolidata, che nel mondo ha permesso di curare oltre diecimila persone, la metà bambini
Angelica torna a casa. Dopo tanto tempo in ospedale può rivedere la sua cameretta, che probabilmente non riconoscerà, visto che i suoi ricordi sono tutti lì, nel reparto del «San Gerardo» di Monza. Angelica è nata 19 mesi fa con una rara malattia genetica, la mucopolisaccaridosi, che colpisce il metabolismo e difficilmente le avrebbe consentito di arrivare all’adolescenza. La seconda volta, invece, è nata grazie al regalo di una mamma e un bambino sconosciuti, un cordone ombelicale reciso e un trapianto di cellule staminali. «Questa malattia danneggia a poco a poco il cervello, le ossa, il cuore – racconta Maria, la mamma di Angelica -. Oggi mia figlia ha iniziato a camminare e a parlare. Sarebbe diventata un vegetale, ora posso immaginarla a scuola. Ho un altro figlio che ha compiuto 18 anni il giorno prima dell’intervento. E se fosse accaduto a lui? Quando era piccolo i trapianti per questa patologia non si facevano, non avrei avuto scelta. Abbiamo organizzato una festa doppia, accendendo una candelina speciale per quella mamma senza nome».
Non si sa come si chiama né dove vive, ma forse in che cosa crede sì. La donatrice di Angelica è una delle migliaia di donne che al termine della gravidanza decidono di aggiungere un nodo a una rete mondiale che si va allargando sempre più. È una scelta solidale, certo, ma è anche una intelligente gestione delle opportunità. Il “miracolo” di Angelica e di altre centinaia di malati italiani (circa 600 dal 2000 a oggi) è fatto di grandi numeri e della condivisione dei dati in tempo reale da un capo all’altro del mondo. «Più si allarga questa rete, che oggi sfiora il mezzo milione di unità disponibili, più saranno le probabilità di trovare un donatore compatibile per chi ne ha bisogno» osserva Paolo Rebulla, responsabile della Milano Cord Blood Bank, da cui proviene circa la metà della donazioni italiane trapiantate in Italia e all’estero. Gran parte dei trapianti sono destinati a persone affette da leucemie, linfomi, mielomi, ma con le cellule staminale estratte dal sangue del cordone ombelicale si possono curare talassemie, aplasie midollari, malattie congenite del metabolismo e del sistema immunitario.
«Quelle del cordone ombelicale sono cellule preziose – spiega Rebulla -. Rispetto a quelle tratte dal midollo osseo o dal sangue periferico sono particolarmente docili dal punto di vista immunologico, provengono da un organismo che nasce e creano meno problemi di rigetto. In secondo luogo, l’unità di sangue compatibile è subito disponibile, non c’è da rintracciare il donatore e sottoporlo a controlli. Terzo, è un sangue molto “pulito”, con meno rischi di contaminazione biologica, da virus ad esempio». Il trapianto allogenico, cioè da donatore, di staminali da cordone è una realtà consolidata, che nel mondo ha permesso di curare oltre diecimila persone, la metà bambini. Oramai sono centinaia i trapianti effettuati in Italia con il sangue placentare (di donazioni sia italiane sia compiute all’estero), basta consultare i dati del Registro italiano donatori (Ibmdr) per contarne 114 solo nel 2009. E quasi altrettante sono state le unità di sangue cordonale distribuite dalla banche italiane sul territorio nazionale e all’estero, in un perfetto equilibrio fra dare e avere. È possibile conservare per sé e per i propri cari, quando serve. «Si può conservare il sangue placentare di un neonato per uso dedicato, in caso di malattie del bambino o di rischio familiare per cui sia scientificamente fondata l’utilità delle staminali» specifica Rebulla. Il decreto ministeriale che a fine 2009 ha regolato la materia indica oltre un’ottantina di patologie per le quali, recita il dispositivo, «è consolidato l’uso per il trapianto di cellule staminali ematopoietiche, con comprovata documentazione di efficacia».
«Le altre opzioni – prosegue Rebulla – ossia conservare il sangue cordonale per sé, in vista di un futuro e non meglio specificato utilizzo, non trovano al momento indicazioni supportate dalla comunità scientifica internazionale. Ci sono studi in corso, negli Stati Uniti, per vedere se l’infusione autologa di staminali è utile contro la paralisi cerebrale e alcune forme di diabete, e stiamo aspettando i risultati. Nel caso delle leucemie e dei linfomi, ad esempio, gli esperti concordano nel dire che funziona molto meglio un trapianto da donatore non identico, per non parlare del rischio di utilizzare staminali con precursori della malattia che favorirebbero le ricadute». È da queste considerazioni di efficacia che provengono i limiti normativi imposti in Italia, dove solo le biobanche pubbliche possono conservare il sangue placentare e non è consentita la conservazione ad uso personale se non nei casi già citati, gli unici in cui si sa che serve a qualcosa.
Chi desidera conservare per sé, può farlo a proprie spese rivolgendosi a una banca privata estera. La posizione del Ministero coincide con quella delle società scientifiche, della maggior parte delle associazioni di donatrici e di pazienti. Recentemente la Fiagop (Federazione italiana associazioni genitori oncoematologia pediatrica) è intervenuta duramente a margine di un dibattito televisivo sostenendo che «il destino del sangue cordonale raccolto alla nascita di un bimbo deve essere legato ad un’informazione corretta e trasparente e non all’interesse personale e mercantile» portando a supporto le posizioni, fra gli altri, del Centro Nazionale Trapianti, Gruppo Italiano Trapianti di Midollo Osseo, Associazione Italiana di Emato Oncologia Pediatrica, American Society for Blood and Marrow Transplantation, American Pediatrics Accademy, European Group for Blood and Marrow Transplant. «Non facciamo la guerra a nessuno, ma non incoraggiamo la conservazione di routine delle staminali, che si basa su promesse poco definite e sottrae risorse alle terapie efficaci oggi – commenta Rebulla -. La filosofia è semplice, il Ministero ha confermato l’ordinanza del 2002: il sangue è sempre un bene pubblico di interesse primario e come tale va gestito».
Anche per garantire una qualità adeguata: «I trapianti di staminali da sangue cordonale hanno imposto livelli di attendibilità altissimi e tutte le fasi richiedono competenza e controlli rigorosi secondo standard internazionali. Ecco perché – prosegue – c’è una selezione severa dei campioni e, di quelli prelevati, solo un terzo viene congelato in attesa di un ricevente. Occorre prelevare una quantità adeguata di sangue per assicurarsi di avere un numero congruo di staminali, occorrono controlli ripetuti per verificare l’assenza di infezioni, altrimenti la sacca non servirà a nessuno o sarà pericolosa. Solo le unità che soddisfano questi criteri vengono infine tipizzate, e inserite nella rete internazionale di donatori». Quanto costa questo sistema complesso? «L’inserimento in banca di una unità costa circa 2 mila euro, soprattutto per le procedure di tipizzazione, necessarie al corretto identikit del campione prelevato – spiega Rebulla -. Questi costi vengono distribuiti al momento dell’utilizzo, con un contributo spese fra ospedale fornitore e ospedale ricevente, per una spesa che comunque è molto inferiore a quella sostenuta, ad esempio, per i trapianti da midollo osseo».
Il punto, allora, non è solo raccogliere donazioni, ma poi poterle trattare adeguatamente, in modo che abbiano una reale utilità terapeutica. Ma quanti cordoni occorrerebbero per soddisfare il fabbisogno? «Ogni banca distribuisce circa l’uno per cento delle proprie risorse. Secondo alcuni studi, un Paese come l’Italia dovrebbe raggiungere circa una donazione ogni mille abitanti, quindi dovremmo puntare a raddoppiare il numero delle donazioni attuali, arrivando almeno a 50-60 mila, il che corrisponde grosso modo all’obiettivo su scala mondiale – risponde l’esperto -. Si stanno sperimentando nuove tecniche per ottimizzare le risorse esistenti, espandere il numero di cellule, per trapiantare due donazioni in un solo ricevente, superando così il limite della quantità ridotta di sangue prelevabile dal cordone ombelicale, spesso poco utile ad adulti di peso normale. Al tempo stesso, c’è ancora parecchio da fare per ampliare le possibilità di raccolta e garantire a tutte le donne che lo desiderano di poter effettuare la donazione, ma è evidente che non tutti i punti nascita possono garantire personale preparato 24 ore su 24». Perché tutte le donne che lo desiderano possano stringere un nodo in più alla grande rete che ha salvato Angelica.