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13 Settembre 2009Più vicini alla terapia genica per la mucopolisaccaridosi
Si aprono le porte della terapia genica per la mucopolisaccaridosi di tipo II, grave malattia ereditaria del metabolismo. In uno studio pubblicato sull’American Journal of Human Genetics, Maria Pia Cosma e Vinicia Polito dell’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Napoli hanno dimostrato come un particolare approccio di terapia genica sia in grado di curare nel modello animale i principali sintomi della malattia, compresi quelli cerebrali.
Nota anche come malattia di Hunter, la mucopolisaccaridosi di tipo II è dovuta alla mancanza di un enzima contenuto nei lisosomi e al conseguente accumulo di sostanze tossiche in tutti i tessuti dell’organismo. In genere si manifesta fin dall’infanzia, con sintomi molto vari: sordità, disturbi della vista, problemi scheletrici, cardiaci e respiratori, ritardo mentale nelle forme più gravi. Il gene responsabile si trova sul cromosoma X: di conseguenza la malattia colpisce soprattutto i maschi, mentre le femmine sono in genere portatrici sane.
Attualmente si può intervenire soltanto somministrando periodicamente l’enzima mancante, prodotto con tecniche di ingegneria genetica, ma con il rischio di andare incontro a effetti collaterali anche piuttosto pesanti, come per esempio lo sviluppo di una risposta immunitaria contro l’enzima iniettato. Ecco perché la terapia genica potrebbe rappresentare un’alternativa molto valida: da diversi anni i ricercatori del Tigem sono infatti al lavoro per individuare la modalità migliore per trasportare il gene corretto nell’organismo dei malati.
Già nel 2006 Pia Cosma aveva dimostrato che utilizzando un certo tipo di adenovirus (AAV 2/8) si potevano curare i sintomi a carico degli organi interni. Oggi con questo lavoro la ricerca fa un significativo passo avanti: cambiando vettore virale (AAV 2/5) e inserendo una particolare sequenza di un altro virus in grado di far produrre l’enzima in modo molto efficiente, i ricercatori del Tigem sono riusciti a curare completamente la malattia nei topi malati.
È bastata una sola somministrazione in topi neonati nel sangue per ripristinare valori sufficienti di enzima tali da impedire la comparsa dei sintomi per tutta la vita degli animali.
In particolare, a livello cerebrale l’enzima così prodotto si è dimostrato in grado di superare la barriera ematoencefalica, una sorta di “filtro” molto severo che normalmente controlla il passaggio di sostanze verso il sistema nervoso. In altre parole, il vettore virale rimane nel sangue, ma l’enzima riesce a raggiungere le cellule cerebrali e a fare il suo dovere di “spazzino”.
I ricercatori sono già al lavoro per capire meglio come l’enzima attraversi la barriera ematoencefalica, ma soprattutto per verificare se la terapia sia efficace anche nei topi adulti, che abbiano cioè già sviluppato la malattia: un passaggio essenziale per proseguire verso un’eventuale terapia sull’uomo.